di Salvo Barbagallo
Probabilmente non c’è alcun mistero sulle navi da guerra italiane che avrebbero violato le acque territoriali libiche, come sostiene il governo di quel Paese (il governo…ufficiale, cioè quello riconosciuto internazionalmente): le navi militari italiane (come dichiarato dal ministero della Difesa) si trovavano in acque internazionali. Un miglio in più o un miglio in meno può fare la differenza? Certamente, se si cercano cavilli (da una parte come dall’altra) per accrescere la tensione, già alta in quest’area del Mediterraneo. Le ragioni degli uni e le ragioni degli altri (qualora si fondassero su questioni basilari) oggi non sembrano trovare un minimo punto di contatto. E in queste condizioni una scintilla può provocare una catastrofe. Proprio alla vigilia dell’importante incontro per approvare il governo di unità mediato dall’inviato speciale dell’Onu, Bernardino Leo, ecco la denuncia con un comunicato ufficiale di Tobruk: “tre navi da guerra italiane sono arrivate nei pressi delle coste di Bengasi, a Daryana», circa 55 km a est della città, e poi si sono spostate verso Derna…(il governo libico) non esiterà a ricorrere a tutti i mezzi che gli consentano di proteggere le sue frontiere e la sua sovranità territoriale…”. Alla risposta italiana “la notizia è falsa”, Tobruk risponde: “la violazione è stata tracciata, e verificata anche dai nostri caccia, in volo per monitorare i movimenti delle tre navi”.
Se i tempi fossero diversi, si potrebbe parlare di “schermaglie” da guerra fredda, ma ora lo scenario ribolle di contrapposizioni che costituiscono tante micce accese in polveriere che potrebbero esplodere. Va ricordato che il 26 settembre scorso, Nuri Abu Sahmain, presidente del Parlamento di Tripoli (il Gnc, non riconosciuto internazionalmente ma al potere di fatto nella capitale libica) accusò le “forze speciali italiane” di aver ucciso Salah Al-Maskhout, il presunto capo di una milizia di Zuwara considerato vicino allo stesso Sahmain e indicato dai media libici come il boss degli scafisti nella città portuale dalla quale partono i barconi carichi di fuggitivi disperati diretti in Italia. Come segnalato dall’Associazione Italiana Rimpatriati dalla Libia e riportato dai mass media nazionali, inoltre, c’è chi soffia sul fuoco aizzando il sentimento anti-italiano: il cimitero di Hammangi a Tripoli è stato ancora una volta devastato.
Troppa carne al fuoco e come se non bastassero le ipotesi sulle reali motivazioni delle continue esercitazioni aeronavali (l’ultima, la più importante, la Trident Juncture, si concluderà sabato prossimo), al Pentagono stanno prendendo seriamente in considerazione l’idea di aumentare la presenza di navi da guerra e sottomarini nel Mediterraneo. Motivazione? Il rafforzamento, senza precedenti dalla fine della Guerra Fredda, dell’attività della flotta russa. Il comandante della Us Navy, ammiraglio John Richardson, ha dichiarato al Financial Times “La loro flotta sottomarina e le loro navi sono attive come non lo sono mai state da lungo tempo, almeno 20 anni”. Per Richardson il problema è come “mantenere un appropriato equilibrio delle forze”: evidentemente, secondo l’alto ufficiale statunitense, non è più sufficiente la VI Flotta USA. di stanza da cinquant’anni nel Mediterraneo, nei porti italiani, nonostante il supporto della Naval Air Station di Sigonella, della base di Augusta, del MUOS di Niscemi e di tutto l’armamentario bellico sparso nel territorio siciliano.
Difficile capire le ragioni di chi vuol “pacificare” solo con l’uso delle armi, e altrettanto difficile capire chi vuol risolvere le questioni solo con l’uso della “diplomazia”: è l’ora dei paradossi dove con tanti protagonisti presenti attorno al tavolo, ad essere assente sembra chi dovrebbe essere il grado di far valere la “ragione”.